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il marchesato di orani
 

Feudalità e ceti sociali nel Marchesato di Orani

 

Uno dei tratti salienti della società sarda è la sua forte caratterizzazione territoriale. Sul piano linguistico, etnico, culturale e comportamentale le differenze tra le varie subaree regionali sono così forti da rendere problematica la loro omologazione in un quadro unitario.

La frammentazione di ambienti, profili produttivi e culturali è preesistente allo Stato unitario ed è in gran parte da ricercare nella plurisecolare azione di trasformazione svolta dalle strutture feudali, forme di organizzazione economica e sociale che per quasi mezzo millennio hanno condizionato la vita della popolazione sarda. Il feudo costituiva infatti un’unità socio-economica omogenea e autosufficiente in cui una ristretta élite, legata al signore del luogo, controllava il sistema produttivo e, attraverso la gestione del potere locale e dei rapporti con l’esterno, orientava i valori, i comportamenti, le forme di espressione degli abitanti di quel determinato territorio.

Essendo il 70% dei villaggi sotto il controllo dell’aristocrazia spagnola è evidente che per lunghi secoli i loro vassalli hanno subito l’influsso di aree culturali (quella ispanica e poi quella sabauda) che hanno arricchito con nuovi apporti linguistici, etnici, folkloristici, religiosi, tecnici e produttivi) i sostrati culturali preesistenti fino ad emarginarli e a far prevalere altri valori identitari condivisi.

A seconda dell’area di provenienza del barone (Catalogna, Valenza, Maiorca, Aragona, Castiglia, Piemonte) nei villaggi che vantano ancor oggi una cultura omogenea si rileva la presenza di differenti influssi architettonici (torri, carceri, case padronali, chiese, depositi), e artistici (pittura, scultura, arredi, gioielli, abbigliamento etc…), tecnico-produttivi in agricoltura (il tipo di semente utilizzata per il grano, l’orzo, i legumi); le forme di coltivazione della vite (ad alberello, a spalliera); di preparazione del vino (taglio, maderizzazione); la scelta delle cultivar per l’innesto degli ulivi (olive maiorchine, valenzane etc.).

Anche il linguaggio e perfino i valori hanno finito con l’essere pesantemente condizionati da tali processi.

Grazie all’iniziativa del sindaco di Orani ed alla collaborazione dei colleghi spagnoli cercheremo di dare concretezza a tali obiettivi studiando il territorio che un tempo costituiva il Marchesato. In questa sede tuttavia e in attesa di una ricerca più approfondita e sistematica della documentazione, considerando che i colleghi tracceranno un profilo del feudo che compre quasi tutti i secoli cercherò di rivolgere l’attenzione al ruolo svolto da alcuni dei protagonisti, delineando un breve profilo delle strategie praticate dalle “élites locali”.

La loro azione ha contribuito a difendere gli interessi della comunità nei confronti del barone e ad accrescere quegli spazi giurisdizionali che hanno consentito prima a ristretti privilegiati gruppi sociali e poi a tutti i vassalli di usufruire di nuovi diritti e libertà civili.

Nello sfogliare le carte d’archivio relative al marchesato di Orani uno dei dati che colpisce maggiormente è il fatto che la documentazione di cui possiamo disporre in Sardegna è assai limitata.

Come tutti i grandi feudi spagnoli la maggior parte delle carte amministrative di un certo interesse (mi riferisco alle liste feudali, alle relazioni degli amministratori sulle entrate fiscali collettate nei vari villaggi, alla gestione degli appalti relativi ai diritti sul grano, l’orzo, il vino, etc. agli incarichi assegnati (ministri di giustizia, sindaco, capitano barracelli, maiore de pardu de silva etc) sono conservate negli archivi della penisola iberica.

E’ a tali fonti dunque che è legata la speranza di ricostruire la storia delle singole comunità, quella delle sue élites interne, del confronto e dei rapporti di forza con i villaggi vicini, e dei legami economici e commerciali con altre aree. All’interno di tale discorso uno degli aspetti a cui dovrà essere rivolta grande attenzione è quello dei rapporti tra la comunità di Orani e i titolari del feudo.

Sia la villa di Orani che gli altri villaggi che costituivano il marchesato sottoscrissero infatti con i loro signori dei “capitoli di grazia” nei quali venivano specificatamente indicati i diritti di cui il villaggio usufruiva e i tributi fiscali che essi erano tenuti a pagare.

Ai fini di una ricostruzione dei rapporti tra baroni e vassalli questo filone di ricerca risulta particolarmente produttivo.

A differenza di altre aree amministrate da feudatari locali che lungo tutta l’età Moderna ebbero la possibilità di controllare personalmente il versamento dei tributi e di utilizzare contro i vassalli renitenti e l’influenza personale e la forza delle proprie milizie imponendo talvolta alle comunità tributi un tempo non dovuti nel marchesato di Orani l’asprezza e l’isolamento dei luoghi e la costante lontananza dei loro nobili signori, appartenenti alla alta nobiltà spagnola, consigliò, fin dal XIV secolo, ai titolari del feudo ed ai loro amministratori di sottoscrivere con i vassalli dei patti in base ai quali ogni comunità era tenuta a versare una somma fissa in denaro, integrata da un tributo minimo in natura.

Attraverso lunghe e accorte trattative Orani e le altre 16 ville si accollarono il pagamento di diritti la cui incidenza fiscale venne attentamente valutata dalle due controparti. Volendo stimolare le coltivazioni e l’allevamento i tributi imposti furono infatti sempre inversamente proporzionali al grano raccolto e al bestiame posseduto. Meno terre si seminavano e meno bestiame si possedeva e più gravoso si rivelava il peso fiscale.

Ad Orani, per confermare annualmente il diritto di semina, ciascun fuoco doveva versare al marchese 8 litri di grano e 8 d’orzo. Gli agricoltori dovevano inoltre pagare per il diritto di “laor de corte” 24 litri di grano (1/2 starello) e 24 d’orzo, a prescindere dalla superficie lavorata.

Anche il diritto di vino venne trasformato in una tassa fissa di 10 cagliaresi che versava sia chi possedeva 2 filari sia chi ne lavorava 100. Per ogni “segno” (10 capi) gli allevatori di maiali, pecore e vacche pagavano il deghino e in cambio potevano pascolare liberamente negli estesi pascoli e boschi ghiandiferi che costituivano il demanio feudale . Sul commercio locale gravavano alcuni diritti riscossi – di solito – dell’amostassen.

I mercanti forestieri erano tenuti a versare alle casse baronali cinque soldi per la vendita delle stoffe, 2,5 per la frutta e il miele e 2,5 kg di formaggio ogni 60 kg. Il feudatario traeva un modesto reddito anche dalla amministrazione della giustizia (multe, tenture e machizie, diritti di incarica) che ad Orani, a metà Settecento, veniva appaltata annualmente per 100 lire (circa).

Il marchese tuttavia con tale somma doveva mantenere in efficienza le carceri e corrispondere un modesto salario agli ufficiali di giustizia.

Nel complesso la popolazione di Orani, attorno al 1760, versava annualmente al marchese non più di 750 lire, quella di Bitti 600 lire e quella di Nuoro 795.

Il fatto che tale importo non sia significativamente aumentato nel corso del tempo ci induce a ritenere che negli archivi spagnoli si conservino documenti che comprovano l’esistenza di specifici patti intercorsi tra le comunità che costituivano la baronia di Orani e il feudatario don Juan Mara de Lisana, parzialmente riconfermati nel 1616 da donna Ana de Portugal y Borja quando, dopo una lunga causa tra eredi, i territori di Orani furono uniti alle Barbagie di Bitti, di Nuoro e della curatoria Dore per costituire un unico marchesato.

I vassalli seppero certamente trarre profitto dalle tormentate vicende giudiziarie che accompagnarono il possesso del feudo. I colleghi spagnoli hanno illustrato nelle loro relazioni il passaggio della baronia da Nicola Carroz a Dalmazzo e da quest’ultimo (per il matrimonio della sorella Beatrice) a Pietro Mara Lisana che già possedeva in feudo le incontrade di Gallura Gemini, di Bitti, di Nuoro. Con molta probabilità a favorire la trattativa tra le comunità e il barone fu la lunga causa legale avviata da Giovanni Cascant contro Brianda di Massa.

Le ingenti spese legali inducevano infatti i contendenti a chiedere ai propri vassalli anticipi in denaro che venivano ripagati con più ampie franchigie, concessioni e maggiori privilegi. Non sappiano quanto sia costato al Cascant il ricorso giudiziario. Una causa simile a quella avviata dalla casata dei Portugal nel medesimo tribunale di Valenza costò, nello stesso periodo, ai Borgia, duchi di Gandia, che rivendicavano contro i Centelles la contea di Oliva più di 215 mila lire (equivalenti al valore di un feudo).

Pressati da varie necessità ( liti ereditarie, quote di legittima, dote, matrimoni, guerre) i feudatari, per risolvere urgenti problemi finanziari, quando i debiti preesistenti non consentivano loro di rivolgersi ai mercanti, facevano ricorso alla generosità dei vassalli concedendo loro, in cambio del denaro, ulteriori grazie e privilegi.

In tale contesto si inseriscono sia i capitoli sottoscritti nel 1616 da donna Ana de Portugal e Borgia sia quelli che impegnano ai primi del XVIII secolo donna Prudenziana Portocarrero.

Vassalli, cavalieri, nobili

In attesa che gli archivi della casa di Hijar ci restituiscano tale documentazione sarà qui sufficiente rilevare che i tributi in denaro, inizialmente assai gravosi (XV e XVI secolo), si svalutarono col tempo avvantaggiando le comunità. Orani si limitò per quasi due secoli a pagare 700-900 lire.

La villa si configurava sul piano fiscale come un feudo chiuso. Ciò consentiva alle élites locali di gestire i problemi interni con relativa indipendenza. Il carico fiscale, a seconda dei gruppi familiari che controllavano le cariche baronali, (ministro di giustizia e sindaco) venivano ripartite su un numero maggiore o minore di contribuenti senza che il podatario potesse intervenire per ridurre il numero degli esenti.

Oltre ai nobili ed ai cavalieri si rifiutavano di pagare diritti dichiarandosi esenti diversi “prinzipales”, membri del Santo Uffizio e i parenti degli ecclesiastici che affidando i loro beni ai congiunti esentavano da ogni contribuzione fiscale i beni posseduti ponendo sotto l’ombrello protettivo della chiesa bestiame e terre. Come accadeva in tutto il regno sardo il carico fiscale finiva dunque col gravare sulle deboli spalle dei vassalli poveri e non su quelle dei ceti più abbienti che gli amministratori feudali evitavano di inimicarsi.

Con tale ingiusto sistema fiscale nelle avverse congiunture climatiche ed economiche erano dunque i sudditi più poveri a trovarsi in difficoltà.

Quelli più agiati utilizzavano invece il loro status sociale per accrescere la propria ricchezza e la influenza. Le rare fonti disponibili evidenziano la presenza nel marchesato di una ristretta élite privilegiata che dopo aver conseguito il cavalierato o la nobiltà svolge all’interno del feudo funzioni militari e amministrative, appalta cariche e attraverso una attenta politica matrimoniale si lega ad altre famiglie del circondario accumulando terre, bestiame e denaro. Alcuni documenti da noi consultati in archivio e diversi atti notarili individuati e tradotti in lingua italiana dallo Zirottu rendono evidente e concreto il livello sociale raggiunto. Michele Angioy, appartenente ad una famiglia che è presente dal XVI secolo in diversi villaggi della contea di Oliva e del Marchesato di Orani quando, nel 1694, fa testamento lascia a ciascuno dei quattro figli (tra quota del fundamentu materna e quota paterna) più di 3500 lire ciascuno, somma che nelle zone rurali, costituiva allora una rilevante fortuna. La qualità e la natura dei beni posseduti evidenzia un livello di vita che va al di là di quello attribuibile ad un “prinzipale”.

Se una parte è costituita da vigne e frutteti e da tanche la presenza di vasi e candelabri d’argento segnala il fatto che siamo di fronte a famiglie di antica agiatezza. Anche Demetrio Satta Gaya e la moglie Angela Pirella appartengono a due gruppi familiari che acquisiscono il cavalierato e la nobiltà nel XVII secolo.

Essi posseggono un solido patrimonio in terre (chiuse), case e denaro che fornisce loro un’elevata rendita fin dai primi anni del loro matrimonio.

L’accumulo di beni immobili e di tanche, per questo ristretto ceto sociale, non inizia dunque in età sabauda ma risale al Seicento. Pagando rate arretrate dal donativo regio o dei tributi feudali e chiedendo in cambio agli altri membri della comunità il privilegio di pascolo su limitate zone territoriali, accordandosi con altri “prinzipales” per recintare e vigilare con propri servi le aree più esposte alle “incursioni” dei pastori dei vicini villaggi, e, ancora, approfittando delle cariche feudali ricoperte (capitano dei barracelli, delle milizie, ministro di giustizia, appaltatore di diritti) essi entrano in possesso di zone del demanio feudale e di terre temporaneamente incolte consolidando col tempo su di esse i propri diritti.

Questa lenta e secolare appropriazione si accompagnava ad una strategia che presupponeva la neutralità e il consenso non solo degli altri nobili e “prinzipales” (con concessioni reciproche e un’accorta politica parentale) ma anche il rafforzamento della propria clientela di soci-coltivatori e soci-allevatori. I nobili affidavano ad essi terre e bestiame.

Indizi della diffusione di tali pratiche anche nel marchesato di Orani sono desumibili dalla analisi del testamento redatto nel giugno del 1702 da Giovanni Solinas il cui bestiame risulta affidato “a cumone” alle cure di 5 servi pastori.

Tale prassi era così diffusa che anche le istituzioni ecclesiastiche non esitavano a far gestire da servi pastori il proprio patrimonio ovino o suino. Il vasto territorio boschivo e la disponibilità di pascoli consentiva agli oranesi di trarre vantaggio dalle risorse naturali sottoscrivendo con pastori forestieri contratti di società che consentivano a questi ultimi di pascolare gratuitamente il bestiame a cumone risparmiando le spese di affitto.

Questa prassi, dalla quale sembrano trarre vantaggio (spesso a danno del marchese) sia il podatario che i subappaltatori dei salti e una parte di “prinzipales” suscitava periodiche tensioni inducendo talvolta i vassalli a ricorrere per via legale contro tali soprusi. L’atto di procura sottoscritto nell’ottobre del 1694 da diversi pastori, trascritto e tradotto dallo Zirottu, evidenzia la capacità di tutela di cui godevano nel feudo di Orani anche i piccoli allevatori.

Riunitisi in assemblea senza i “prinzipales” 24 di essi deliberano di affidare all’avvocato Giovanni Pirella un ricorso giudiziario per chiarire definitivamente se i vassalli di Orani debbano pascolare gratuitamente nei saliti ghiandiferi o se questi territori (come pretendevano alcuni nobili oranesi che avevano appaltato tali diritti) potessero essere affittati dal sindaco e dai ministri feudali al miglior offerente.

A fine Seicento, dopo che la peste del 1655 e la carestia del 1680 hanno decimato la popolazione è evidente che tra vassalli poveri e “prinzipales” è in atto un confronto sull’utilizzo di vaste parti del territorio che per mancanza di uomini resta incolto.

I benestanti che, forse, negli anni di crisi avevano pagato una parte del donativo regio e dei diritti feudali affittando i ghiandiferi tentavano ora di consolidare tale prassi restringendo l’accesso al pascolo ai soli abbienti. Per non subire tale sopruso, che contrastava con i secolari e inalienabili diritti di ademprivio, ai pastori oranesi, nel 1694, non restò altra alternativa che il ricorso legale. Come si riscontra nella documentazione relativa ad altri feudi, nel marchesato di Orani il confine tra il lecito e l’illecito, essendo fondato sulla tradizione e sulla interpretazione che di essa davano ecclesiastici, notabili e “prinzipales” fu sempre assai incerto.

Quando poi a sostenere le ragioni di chi intendeva innovare o modificare le usanze comunitarie contribuivano contratti sottoscritti dall’amministratore del feudo e a sostenerle interveniva anche il notabilato locale o estesi gruppi parentali le possibilità di difesa per le fazioni minoritarie diventavano problematiche.

Per capire quali tensioni e spaccature i contratti di appalto suscitassero all’interno delle comunità è sufficiente fare riferimento all’atto col quale l’amministratore del feudo, nel 1723, cedette in subappalto a tre “prinzipales” oranesi (Marcello, Pisanu-Solinas, Cosseddu-Modolo) e a 4 allevatori di Oniferi la colletta del deghino, le terre a pascolo e il bosco ghiandifero di Oniferi per 100 lire complessive.

Il contratto consentiva ai 7 soci di gestire in proprio non solo le terre a pascolo ma anche le stoppie, le multe, l’affitto ai forestieri, la cattura del bestiame che veniva introdotto abusivamente. Il guadagno degli appaltatori era dunque legato alla riduzione dei diritti di ademprivio della comunità: maggiore era il prestigio e l’influenza sociale più concreta diventava per essi la possibilità di introdurre limitazioni e di accrescere i propri guadagni.

Tale situazione determinava una frequente polarizzazione della popolazione in fazioni che si schieravano a difesa dei diritti pretesi dall’amministratore del marchesato oppure contro tali imposizioni. Il ricco materiale dell’archivio ducale su questo versante potrebbe offrire molte novità chiarendo quali “partiti” locali controllassero, di tempo in tempo, la riscossione dei diritti feudali .

Divisi sulla gestione degli appalti, cavalieri e notabili oranesi si univano creando un fronte comune contro i tentativi fatti dai podatari per limitare le loro libertà o ledere quei privilegi che consentivano loro di “governare” la villa di Orani.

L’atto con cui nel dicembre 1702, davanti al notaio Ignazio Angioy Carta, i vassalli si impegnarono a resistere giudiziariamente alle pretese dell’amministratore feudale Giorgio Cugurra, che pretendeva di confermare come sindaci solo persone prive di titolo nobiliare, costituisce la risposta delle élites locali all’ultimo insidioso tentativo feudale di controllo della comunità.

Essendo esenti dalla giurisdizione signorile i nobili costituivano infatti un potente scudo dietro il quale trovavano riparo i diritti “inalienabili” della popolazione del villaggio.

La loro nomina consentiva dunque ai vassalli di contrastare senza rischi personali le pretese degli amministratori del marchesato e di non rischiare di essere arrestati o intimiditi nella difesa degli interessi del villaggio.

L’ascesa sociale di questo ceto nobiliare non risulta tuttavia legata alla sola gestione delle cariche e degli appalti del marchesato. Gli Angioy, i Guiso, i Carta, i Pirella, i Cadello, i Satta, i Gaya devono le loro fortune sia al ruolo da essi svolto come capitani di quelle milizie feudali che erano state ripetutamente mobilitate dal baronato tra Cinque e Seicento per la difesa del Capo del Logudoro dalle incursioni barbaresche e da quelle effettuate dalla flotta francese ma anche alla capacità che queste famiglie hanno di fornire ad una parte dei loro consanguinei un elevato grado di istruzione per consentire ai propri figli di inserirsi nell’apparato amministrativo e giudiziario e nella gerarchia ecclesiale. I Carta (che acquisiscono la nobiltà nel primo quarto del XVI secolo), legati inizialmente alla casata degli Arborea ed ai Carroz, dalla villa di Benetutti di cui erano originari, si irradiano in tutto il Logudoro ponendo radici anche ad Orani. I Manca discendono da un ramo secondario di quei nobili sassaresi che possedevano i feudi di Thiesi, Monti, Usini, Mores e controllavano diverse importanti cariche amministrative del Capo Settentrionale. Attuando un’abile strategia matrimoniale essi si imparentano con i Virde, i Gaya, i Cedrelles, i Guiso estendendo i loro interessi anche sull’asse Ottana – Orgosolo – Galtellì.

Ad Orani risultano presenti per qualche tempo anche gli Esgrechio influente famiglia sassarese imparentata con i De la Bronda e i Manca Cedrelles che vantano tra i loro membri vescovi, ministri dell’Inquisizione e consiglieri civici.

Le famiglie che ad Orani esercitano in età moderna maggiore influenza sono tuttavia quelle degli Angioy, dei Manca Guiso, dei Cadello, dei Pirella.

La costante presenza di rappresentanti di tali gruppi parentali in tutti gli atti che la comunità oranese sottoscrive con il marchese e le funzioni di intermediazione che essi svolgono nei confronti dei rappresentanti delle altre ville e della stessa corona per la colletta del donativo e le attività militari è confermato dal ruolo e dalla funzione che i vassalli oranesi riconoscono a questi clan parentali. Immuni alle minacce e intimidazioni feudali per titolo di cavalierato o di nobiltà essi dispongono di notevoli risorse materiali in terre, bestiame e denaro.

Ad accrescere periodicamente le loro ricchezze e a favorirne l’ulteriore ascesa sociale contribuiscono, di generazione in generazione, anche le generose elargizioni di quei consanguinei che hanno abbracciato la carriera ecclesiastica. Per i Manca Guiso le fortune sembrano iniziare con un Simone Manca, vescovo di Ottana, che affida al fratello la gestione dei beni vescovili.

Questo ramo della famiglia, imparentatosi con i Guiso, baroni di Orosei e con i Cervellon, marchesi di Sedilo, diventano amministratori della mensa vescovile di Nuoro-Galtellì e della prebenda di Orgosolo.

Al possesso di numeroso bestiame e a carriere notarili ed ecclesiastiche appare legata anche l’ascesa dei Pirella. Uno di essi, diventato vescovo di Bosa nel XVII secolo, favorì la concessione del cavalierato ed alcuni membri del suo parentado e sostenne negli studi diversi nipoti avviandoli alla carriera forense.

Di un certo rilievo appare anche il ruolo dei Cadello. Originari della Catalogna, alcuni di essi vennero in Sardegna al seguito dei Centelles, allora conte di Quirra, e si insediarono anche nel Logudoro dove, qualcuno dei discendenti, sposò una Prunas, figlia di un ricco commerciante di Bosa. Uno dei loro figli (Sebastiano) si trasferì a Tortolì mentre il fratello Salvatore, insignito del cavalierato (1630), si spostò a Pozzomaggiore dove sposò una Dettori.

Il figlio di quest’ultimo si trasferì ad Orani svolgendovi funzioni di rilievo. Nel corso del Settecento alcuni discendenti del ramo cagliaritano di tale famiglia divennero giudici della Reale Udienza e acquisirono il titolo di marchesi di San Sperate. I Cadello vantano tra i loro consanguinei anche due altissimi prelati: Salvatorangelo diventerà vescovo di Tempio (1741) e Saturnino, nominato arcivescovo di Cagliari nel 1797, è stato uno dei pochi sardi ad essere insignito del capello cardinalizio.

Anche gli interessi della famiglia Angioy travalicano, fin dal XVI secolo, gli angusti confini del feudo di Orani. Mentre alcuni discendenti ottengono il cavalierato (1631-1652) e si inseriscono a vari livelli nella amministrazione feudale altri, avviati agli studi e conseguita la laurea ottengono parrocchie e rettorie. Uno di essi, Giuliano Angioy, a metà 600, (1647) diventa canonico della diocesi algherese e Commissario del Santo Uffizio.

Sia l’una che l’altra carica fornivano annualmente un reddito assai elevato. Anche nel Settecento gli Angioy avviano alla carriera ecclesiastica diversi loro consanguinei che troviamo citati in carte ecclesiastiche ed in atti notarili.

Dei fratelli di Giovanni Leonardo, antenato di Giommaria Angioy, il famoso giudice e patriota, Giovanni Maria si trasferì a Bono dove sposò Giovanna Ledà Satta Gaya ed Emanuele ad Iglesias dando luogo ad un altro ramo rappresentato dall’avvocato Antioco Giuseppe. Quest’ultimo trasferitosi a Cagliari divenne segretario del Consiglio di città.

Agli Angioy è legata tra le altre anche la casata degli Asquer. Uno di essi (Giovanni Battista) appartenente al ceto mercantile genovese, ( e forse interessato all’appalto del marchesato) quando la peste si diffuse nell'isola (1653-55) si trasferì con la famiglia da Cagliari ad Orani dove morì colpito dal pericoloso flagello.

Mentre il resto della parentado, scomparso il pericolo, rientrava nella capitale legando per via matrimoniale le proprie sorti a quelle dei Martì (ricchi commercianti), dei Cugia (commercianti e magistrati) e degli Amat e acquisendo il viscontado di Flumini, una delle figlie di Giovanni Battista, unitasi ad Orani in matrimonio con un Angioy, diede origine al ramo Angioy Asquer.

I vincoli di parentela tra i due ceppi nobiliari furono rinnovati nella seconda metà del Settecento quando un figlio di don Gavino Asquer, visconte di Flumini, e di Isabella Cugia, impalmò Teresa, figlia dell’avvocato Giuseppe Angioy (del ramo Angioy di Iglesias).

Da quanto si è rilevato appare evidente che le ville del marchesato e Orani in particolare, poterono contare sulla influente protezione di famiglie residenti nella capitale del regno e legate a doppio filo al mondo del commercio, agli apparati amministrativi e giudiziari, all’alto clero.

Per il marchese ed i suoi amministratori il confronto con le più potenti famiglie oranesi (Angioy, Cadello, Satta, Gaya, Manca Guiso, Pirella) fu sempre carico di incognite.

I legami che esse coltivavano con amici e parenti che vivevano in città e ricoprivano importanti uffici e la politica di tutela nei confronti delle comunità locali praticata dalla corona ispanica e da quella sabauda rendeva problematica qualsiasi pretesa signorile.

A questo proposito è opportuno ricordare il citato mandato affidato nel 1694 da 24 vassalli di Orani all’avvocato Giovanni Pirella (che funge in questo caso da nume tutelare degli interessi della comunità) affinché difenda i loro diritti di pascolo davanti ai giudici della Reale Udienza e il ricorso presentato nel 1702 per conto della villa di Orani dall’avvocato Giovanni Angioy Asquer, originario di Orani ma anche “cittadino di Cagliari” contro il podatario Giorgio Cugurra.

Le carte che abbiamo esaminato sembrano avallare l’ipotesi che il progressivo calo delle rendite feudali e l’accresciuto potere di contrattazione delle comunità inizi con l’inurbamento a Cagliari e Sassari delle famiglie nobili oranesi, e il freno posto dai Savoia alle rivendicazioni della grande feudalità spagnola.

Su questo versante, nel ventennio 1745-1765 si realizza una svolta decisiva che muta definitivamente i rapporti tra baronato e comunità.

Quando le truppe franco-iberiche, durante la guerra di successione austriaca, nel 1744, entrano in Piemonte saccheggiandone i villaggi il sovrano, per rifarsi dei danni che ha subito in Terraferma, ordina il sequestro dei feudi spagnoli in Sardegna.

Il marchesato di Orani viene affidato alle cure di don Michele Valentino che riduce o elimina molti tributi per dimostrare alla popolazione del feudo (ed in particolar modo a quella della Gallura di cui era originario) che il blando governo del re è preferibile a quello dell’aristocrazia spagnola.

In questo ventennio diversi tributi feudali, sottoposti dal governo a verifica documentale, cadono dunque in disuso perché richiesti illecitamente.

Contemporaneamente, l’avvio di una politica di rifiorimento della agricoltura induce il governo a facilitare con apposite leggi la cessione gratuita ai vassalli di terre incolte appartenenti al demanio feudale. A seguito di tale politica tra il 1761 e il 1771 anche Orani muta il proprio assetto produttivo e quello politico amministrativo.

Con voto segreto e senza l’intervento dei rappresentanti del marchese la comunità elegge un censore e una commissione di probiviri che individuano le terre da coltivare, riorganizzano la compagnia barracellare, istituiscono un monte granativo che dovrà prestare ai vassalli il grano da semina a modico tasso di interesse.

Tra ritardi e resistenze il numero dei coltivatori inizia ad aumentare, il monte granatico raggiunge una dote di 70 quintali e la popolazione estende le coltivazioni fino a 120- 130 ha. complessive.

Nell’intero circondario l’espansione delle terre coltivate porta ad una profonda ristrutturazione dell’utilizzo del territorio.

Sollecitati dalle autorità i sindaci di Orani, Oniferi e Orotelli definiscono gli spazi da assegnare ai rispettivi vidazzoni e stabiliscono i criteri da seguire per evitare che le terre seminate in un villaggio confinino con quelle destinate a pascolo dall’altra villa. Come evidenzia il documento pubblicato da G. Zirottu, nel primo biennio, Orani era tenuta a lavorare le terre di Liscoy, Taleri, Dore e Corti; Orotelli quelle di Forolo e Oniferi quelle di Bau Martine. Nel secondo ciclo di rotazione agraria gli oranesi, lasciati a pascolo i suoli lavorati in precedenza affinché il bestiame li concimasse, avrebbero arato i vidazzoni di Nardali e Suergiu.

Anche Orotelli e Oniferi dovevano concentrare i seminati a Suergiu. Nel terzo biennio Orani e Oniferi dovevano seminare le terre di Oddini e i vassalli di Oniferi il Prato antico.

Nella seconda metà del Settecento la gestione del marchesato fu dunque tormentata non solo dalle cause di divisione ereditaria e dai sequestri regi ma anche dal fatto che la corona, nell’intento di limitare il potere feudale e di sottoporlo al proprio controllo, malgrado gli ampi diritti di allodio di cui il feudo godeva. Inoltre,per impedire che le rendite dal marchesato finissero in Spagna, prima obbligò i feudatari spagnoli ad investire in Sardegna (nel restauro di chiese, conventi, carceri, ponti, doti per fanciulle nubili, etc.) una parte delle rendite arretrate che il re era tenuto a restituire e successivamente emanò la legge che istituì i consigli di comunità sottraendo in tal modo al potere feudale non solo la gestione del territorio (come e dove coltivare, quali aree riservare al bestiame etc.), che fu assegnata al censore, ma anche la scelta dei sindaci e degli ufficiali di giustizia (1799).

Con l’approvazione di tali istituzioni che gestivano il potere locale senza che il feudatario potesse intervenire anche ad Orani le contestazioni nei confronti del marchese, sostenute sia dalle famiglie nobili sia dai “prinzipales” rappresentati nel consiglio di comunità ripresero vigore e trovarono crescente ascolto tra i ministri regi.

Ricostruire queste tensioni, che talvolta alimentarono pericolose faide, è un altro dei compiti della ricerca ma esso si configura come un obiettivo di lungo periodo. Nella fase iniziale occorrerà invece capire le motivazioni che indussero la maggior parte delle vecchie famiglie nobiliari a trasferirsi in città.

Attivi per diversi secoli questi gruppi nobiliari nella seconda metà del Settecento “abbandonarono” Orani e si inurbarono per ricoprire i più alti gradi della magistratura (Cadello e Angioy) e della gerarchia ecclesiale (Angioi, Pirella, Cadello) del regno.

“Prinzipales”, notabili, borghesi

A trarre vantaggio dagli spazi politici lasciati vuoti furono, soprattutto nel XIX secolo, “prinzipales” e notabili. Tra i protagonisti di questa nuova fase della storia di Orani troviamo i Marcello (possidenti, notai, ecclesiastici), i Siotto, i Pintor, i Sequi. Il censimento dei beni effettuato a fini fiscali nel 1814 evidenzia la presenza di famiglie che dispongono di un discreto patrimonio in case, terreni chiusi, vigne (Marcello, Sequi, Siotto) e di un ingente numero di capi ovini e vaccini (Sequi-Nin, Pasquale e Pietro Siotto).

A questi ceti rurali emergenti spetterà un compito più facile di quello svolto dalle famiglie nobiliari che li avevano precedute. Gran parte della strada che portava al profitto individuale e alle libertà borghesi era stata infatti già spianata.

Se nel Cinque e Seicento il marchese poteva nominare come amministratori sudditi castigliani o aragonesi e servirsene per imporre innovazioni fiscali o giudiziarie con l’avvento della Monarchia sabauda la nomina dal podatario venne condizionata al beneplacito regio.

Il podatario che doveva essere scelto tra i sudditi del re di Sardegna, non essendo legato da vincoli di fedeltà familiare o clientelare al marchese, più che ad una corretta amministrazione era interessato a ricavare un profitto personale diretto. Per tale ragione il bilancio del feudo di Orani, nel secondo ‘700, iniziò ad inclinare verso il passivo.

Sia l’avvocato Giacinto Atzori, che sostituì il Valentino nell’amministrazione del marchesato sia il dottor Francesco Cocco, che gli subentrò, non riusciranno a modificare tale situazione.

Gli spazi di manovra dei podatari stavano diventando sempre più angusti. Grazie alla vigilanza regia ogni tentativo dei ministri feudali di trarre vantaggio dalle opportunità loro offerte suscitavano l’immediata reazione delle ville.

Quando, ad esempio, il podatario Francesco Mossa tentò, nel 1771-72, di ridurre le spese di gestione ordinando

  • ai “massajos”, contro le disposizioni delle regie prammatiche, di eseguire lavori per conto del marchese nel cruciale periodo della mietitura
  • agli allevatori di fornirgli mensilmente, a titolo di omaggio, diversi capi vaccini
  • di accrescere le entrate relative all’amministrazione della giustizia imponendo nuove tariffe sulla redazione degli atti processuali e il tributo relativo a illeciti diritti di visita;

tutte le comunità del marchesato insorsero rifiutandosi di pagare i diritti e segnalando “le innovazioni” alle autorità regie che redarguirono l’amministratore.

Dopo quasi un cinquantennio di limitate o mancate entrate la casata del marchese di Orani nel 1818 propose al re di rinunciare ad ogni diritto sul feudo e di avere in cambio la tonnara di Flumentargiu ma la monarchia sabauda si tenne i redditi certi della tonnara e lasciò il marchese “suddito straniero” in gravi ambasce finanziarie.

Da tempo infatti i vassalli della Gallura non pagavano più i diritti e quelli dei circondari di Orani, Bitti e Nuoro si limitavano a versare solo le quote in denaro. Mentre gli avvocati del Duca inviavano continue richieste al governo per sollecitare l’utilizzo della forza pubblica contro i vassalli renitenti la corona decretò, nel 1825, un altro sequestro delle rendite del feudo.

L’avvocato Floris, amministratore del marchesato, stanco dei solleciti cercò di pareggiare i versamenti dovuti alla corona per il donativo del 1823 con le spese sostenute per alimentare e custodire nelle carceri baronali 49 detenuti condannati o arrestati per ordine del prefetto regio.

Solo dopo lunghe discussioni e l’intervento dell’ambasciatore spagnolo presso il ministro degli esteri a Torino la Tesoreria del regno deliberò di pagare al feudatario il debito arretrato consentendo all’avvocato Floris di versare le quote di donativo dovute.

L’immagine del barone esoso che chiede ai propri amministrati tributi oltre il dovuto e che l’ inno del Mannu contro sos feudatarios ha contribuito a consolidare e diffondere rispecchia più la situazione dei feudi gestiti da nobili sardi che quelli posseduti dalla aristocrazia spagnola.

Le “angariae” e i soprusi che emergono anche in questi territori sono da attribuire non ai signori ma alla avidità degli appaltatori locali. Questi ultimi brigano infatti tra loro per ottenere, malgrado i rischi e le difficoltà, questi ambiti incarichi di esazione. Più i gruppi familiari che partecipano all’appalto godono di prestigio e di influenza e più elevati sono i guadagni e le rendite.

Non sempre tuttavia la fortuna aiuta chi mostra spirito imprenditoriale.

Nel 1812 Salvatore Pintor, possidente ed ex sindaco di Orani, si accorda con il notaio Cicalò Gallisai e con i fratelli Pietro e Vincenzo Crobu (negozianti) per appaltare le rendite dell’incontrada. L’affare sembra promettente perché il Pintor è persona autorevole.

Le annate 1812 e 1813 furono in tutta la Sardegna anni di fame e di carestia e quando gli altri soci capirono quello che accadeva nelle aree vicine convinsero il Pintor ad accollarsi l’intero affare pagando al Marchese, a discarico dei tre ex appaltatori, 1100 lire.

Poiché il nuovo sindaco di Orani si oppose al versamento di alcuni diritti il Pintor non fu in grado di mantenere i propri impegni e il Gallisai e i Crobu, d’intesa con l’avvocato del marchese, ottennero dal giudice di mettergli all’asta i beni.

Controllati dal governo e impossibilitati ad utilizzare la forza per piegare la resistenza fiscale dei vassalli, diversi appaltatori non riuscirono a chiudere i loro conti.

Nel 1780- 87 a trovarsi in questa situazione fu il commerciante livornese Cesare Baylle. Console generale di Spagna, amministratore della contea di Oliva, del ducato di Mandas e del marchesato di Orani, affittuario della tonnara di Flumentorgiu e socio della Stamperia reale , per porre fine all’imponente contenzioso tra baroni e comunità,che i ricorsi delle amministrazioni locali alimentavano di continuo e definire una volta per tutte pesi e diritti egli chiese al governo di istituire una “regia delegazione” al fine di risolvere in via “economica“ tutti i ricorsi. Nel febbraio 1782 il sovrano accettò la proposta e affidò tale compito ai magistrati Pau e Magnaudi ma i lavori andarono per le lunghe.

E il Baille dovette fronteggiare molti atti di resistenza A seguito di ripetuti e continui furti di bestiame egli dovette intervenire applicando la vecchia normativa feudale ma la popolazione di Orani si rifiutò di pagare i diritti di incarica dai quali per tradizione immemorabile essa si considerava esente.

Quando il Baylle, il 28 ottobre 1776, inviò il suo delegato, accompagnato dal notaio e dai ministri per notificare alla comunità la multa di 250 lire per i furti di cui non si conoscevano gli autori gli ufficiali feudali <<furono da 250 e più vassalli circondati ed a forza levarono di mano dei medesimi la nota di distribuzione di quel pagamento, lacerata in un momento a cagione delle minacce e stra da cui furono costretti a ritirarsi in Sarule>>.

Per queste resistenze e per altri fatti il Baylle rinvierà per anni la presentazione del saldo contabile costringendo il marchese ad incaricare l’avvocato Pasquale Atzori (figlio dell’ex amministratore Giacinto) ad inoltrare ricorso alla Reale Udienza.

Anche negli anni ’90 il feudatario dovette affrontare una nuova crisi finanziaria. A causa della tentata invasione francese e dei moti angioiani i vassalli che pagarono i diritti sono molto pochi. Mercanti e amministratori speculeranno sulle necessità del marchese concedendogli anticipazioni creditizie a tassi assai elevati. Il nobile Duca è costretto infatti a corrispondere i donativi ordinari e straordinari imposti dalla corona durante le guerre napoleoniche senza avere la possibilità di riscuotere i tributi a lui dovuti dai vassalli.

A seguito di tale situazione debitoria, nel 1806 i redditi del feudo vengono posti sotto sequestro dagli eredi dei commercianti Navarro e Belgrano (uno genero e l’altro zio di Giovammaria Angioy) creditori di una discreta somma e dallo stesso fisco regio. L’Intendente Generale e il procuratore fiscale, non considerando validi i titoli feudali relativi alla Gallura Gemini, ne chiedono infatti la devoluzione alla corona costringendo il povero Duca ad avviare un’altra dispendiosa causa che assorbe per qualche anno quasi tutte le rendite che egli trae dalla Sardegna.

Le poche entrate, tra il 1806 e il 1807, finiscono nelle casse del notaio Doneddu, nominato custode e depositario dei conti del feudo dal Tribunale, costringendo il duca a pagare i propri legali con denaro inviato dalla Spagna. I ministri feudali erano infatti pressati dal fisco regio che pretendeva il puntuale pagamento dei tributi e dei salari senza che essi potessero realizzare adeguati incassi.

Per tale ragione molti amministratori rinviavavano ripetutamente la consegna dei conti finali. Sostenuti dai consigli di comunità i vassalli non ricevendo i servizi dovuti (dalla manutenzione delle carceri e dei ponti alla tutela dell’ordine pubblico) rifiutavano infati di pagare alcune quote di tributo innestando un circolo vizioso. Come gli altri grandi feudi spagnoli (ducato di Mandas e contea di Oliva) anche il marchesato di Orani, tra ‘700 e ‘800 divenne un’area nella quale i vassalli, facendo leva sulla politica della corona sabauda, che tendeva ad indebolire la feudalità, guadagnarono franchigie e libertà che i consigli comunitativi trasformavano in nuovi diritti.

Se la villa di Orani, piccola capitale del marchesato, essendo fiscalmente poco gravata, pagava senza troppe storie le 900 lire (circa) dovute al marchese in altre aree l’evasione risultava assai diffusa.

Nel secondo decennio dell’Ottocento -lamentava l’avvocato Floris -la situazione era ulteriormente peggiorata. Nel 1818 egli aveva speso in Gallura 2022 lire e ne aveva incassate solo 82. Dopo il 1820 il fenomeno della evasione fiscale si estese anche ai mandamenti di Orani e di Nuoro. A chiedere l’esenzione dal pagamento dei diritti feudali non furono solo i sacerdoti, i cavalieri, i consiglieri di comunità, i censori, i sindaci, i flebotomi ma anche i “prinzipales” e le famiglie agiate.

Nel 1828 l’appaltatore feudale si vide costretto a chiedere, tramite citazione al tribunale di Nuoro, il pagamento delle quote dovute da diversi notabili di Orani, Nuoro, Oniferi.

Costoro asserivano infatti di non avere mai pagato liste feudali. A Bitti i fratelli Delogu e Pala attestarono il loro status di prinzipales affermando di indossare come segno un berretto “forestiero” di lana colorata e inviando al giudice di mandamento una delibera dal Consiglio di Comunità che comprovava le loro dichiarazioni. All’amministratore non restò che inoltrare un ulteriore ricorso ma le cause civili, anche allora, andavano per le lunghe e richiedevano continue spese.

Impossibilitati ad usare la forza pubblica e privi di giurisdizione i feudatari non riuscirono più a frenare l’evasione fiscale. Le tecniche per sfuggire al pagamento diventarono sempre più raffinate. Nel 1824, a seguito di numerosi ricorsi speditigli dai prinzipales del mandamento di Orani il prefetto di Nuoro chiese all’amministratore del marchesato le liste feudali (in originale) e per esaminarle “minuziosamente” le tenne un intero anno.

A tempi ormai scaduti l’avvocato Floris, podatario del marchese, ricorse al Governatore di Sassari per imporre ai vassalli del mandamento di Orani il pagamento delle tasse arretrate ma la maggior parte dei contribuenti anziché pagare preferì fare qualche giorno di carcere e inoltrare una nuova richiesta di esenzione. Per la scarsa collaborazione degli impiegati e ministri regi il ginepraio burocratico e amministrativo diventò inestricabile.

Prefetti e giudici rinviavano le sentenze e chiedevano continui contraddittori tra le parti per accertare “la verità”.

Nel 1835 – segnalava allarmato l’avvocato Floris alle autorità – gli stessi parroci del marchesato di Orani avevano fatto circolare la voce che il governo non avrebbe utilizzato la forza pubblica per far pagare i renitenti. La feudalità doveva affrontare un infernale circolo vizioso; i sindaci compilavano le liste senza l’intervento dei delegati baronali scaricando i tributi sui nullatenenti e favorendo i benestanti e gli esattori non riuscivano ad avere soldi da chi non possedeva neppure la casa.

Talvolta i sindaci vecchi “dimenticavano di compilare le liste e i nuovi amministratori dichiaravano che il riparto non era di loro competenza e i primi, nuovamente interpellati, si defilavano affermando di non avere più potere, e autorità.

Da Nuoro, villaggio in cui, dopo i moti di su connottu, permanevano forti tensioni, nel settembre 1839, il podatario inviò al viceré l’ennesima protesta perché i sindaci della villa non avevano compilato le liste feudali del 1836, 1837, 1838 e gli appaltatori, privi di ruoli e liste fiscali non potevano legalmente operare.

Questa situazione prefallimentare del marchesato di Orani era determinata da diversi fattori.

Uno degli elementi che emergono costantemente dall’esame della corrispondenza tra le autorità regie, e i podatari feudali e la costante lamentela degli amministratori per l’impossibilità di collettare i diritti dovuti dai vassalli senza l’aiuto della forza pubblica.

Se nei circondari di Orani o di Nuoro l’appalto delle rendite ad un gruppo di notabili offriva qualche garanzia, in Gallura i collettori che si avventuravano negli stazzi rischiavano di essere uccisi.

In tale area la resistenza era animata dai cavalieri tempiesi i quali, dopo aver chiuso estesi territori, temevano di doverli restituire al demanio feudale. In Gallura i grandi signori del bestiame, proprietari di 5000 – 6000 capi non volevano intromissioni all’interno delle loro vastissime tanche e dei rebanos. Nel 1816 – 817 il duca di Hijar, per far fronte alla carestia ed alimentare i propri vassalli fece trasportare da Mandas a Tempio 300 quintali di grano spendendo, per le esigenze annonarie della Gallura, 1500 lire ma non incassò quasi nulla dagli ingrati allevatori galluresi che , a causa della cattiva annata, si rifiutarono di pagare il deghino. Nel primo ‘700 il feudo rendeva 4277 lire, detratte 1820 lire di spese ne restavano 2617 per pagare il donativo al re e la rendita annuale al marchese.

Tra il 1820 e il 1825 nelle casse dell’amministratore entrarono 1207 lire lorde ma egli ne spese 8000 per le carceri, il ponte nel Coghinas e altre emergenze. Per far fronte alle necessità della Gallura gemini il podatario si vide costretto ad utilizzare le entrate dei dipartimenti di Orani, Bitti e Mandas (6099 lire) con le quali riuscì a pagare le tasse dovute al re dai vassalli galluresi.

La progressiva erosione dal sistema feudale. Passava anche attraverso l’utilizzo dei diritti di ademprivio che le comunità vantavano sulle terre del marchese.

Ad Orani come ad Oniferi il Consiglio civico, con false attestazioni richiedeva al marchese per i vassalli nuove fette del demanio feudale da destinare alla coltivazione e al pascolo, ma tali spazi venivano poi subaffittati ai forestieri sottoscrivendo con essi dei contratti di società al fine di consentire a questi ultimi di risparmiare le spese di pascolo.

Ad Orgosolo il diritto che la comunità aveva (dal 1725) di far pascolare i porci nel bosco ghiandifero venne esteso ai primi dell’Ottocento a tutti i quadrupedi. L’intera popolazione contestò infatti gli ordini dei ministri feudali e si rifiutò di ritirare il proprio bestiame dal demanio del Duca di Hijar.

Un altro problema che animò il dibattito all’interno delle comunità nel periodo del tramonto dei feudi e della progressiva privatizzazione e chiusura delle terre fu la gestione del territorio e del rapporto tra paberile e vidazzone.

La trasformazione in tanche recintate di aree un tempo di uso collettivo restrinse infatti gli spazi agrari di uso comune creando periodicamente divisioni e tensioni interne tra pochi grandi allevatori e i pastori poveri.

Nel villaggio di Orani questo problema emerse ripetutamente. Tra il 1828 e il 1829, le chiusure restrinsero ulteriormente lo spazio agrario e il Consiglio civico cercò di razionalizzare l’utilizzo della terra. All’interno della comunità erano tuttavia presenti esigenze contrastanti.

In contrasto con quanto richiesto da diversi coltivatori nel 1828 il sindaco di Orani chiese all’Intendente (e non più al feudatario) l’autorizzazione ad utilizzare per altri due anni le terre che erano state adibite a vidazzone e pabarile così da concimare meglio quelle a pascolo e sfruttare un po’ di più quelle già arate. Il Consiglio civico si mostrò infatti contrario a portare da 3 a 4 le aree a vidazzone, come richiesto da diversi contadini.

Quelle esistenti, sosteneva la delibera consiliare, erano molto lontane dalle zone adibite a pascolo mentre l’area di “Su Puleju” dove si era chiesto di seminare sarebbe stata esposta non solo alle insidie derivanti dallo sconfinamento del bestiame locale ma anche alle incursioni dei pastori nuoresi e di Mamoiada. In contraddittorio con l’Ufficio dell’Intendenza, nel 1829, i consiglieri deliberarono di destinare “su Puleju” non a vidazzone ma a zona di pascolo per il bestiame manso sostenendo che essendo un’area riparata dai venti essa si prestava al pascolo e alla custodia degli animali di maggior valore.

Tra i due “partiti” presenti in Consiglio, a prevalere, condizionando la decisione dell’Intendenza di Finanza di Nuoro fu dunque quello degli allevatori. Tuttavia, come accade ancor oggi, le divisioni all’interno della comunità oranese nascevano non solo a causa di interessi economici legati all’utilizzo della terra e quindi al precario equilibrio tra agricoltura e pastorizia ma anche per soddisfare esigenze familiari o di natura clientelare.

Se nei secoli precedenti, quando il feudatario esercitava il suo pieno e indiscusso potere la lotta tra gruppi parentali nasceva per far assegnare ad un proprio congiunto la carica di ufficiale di giustizia, sindaco o barracello ed impegnava l’intera catena di amicizie, dopo l’abolizione del feudalesimo, la situazione non solo non mutò ma anzi il confronto si fece più aperto. Da questo punto di vista quanto accadde ad Orani nel 1841 per l’assegnazione del posto di flebotomo è abbastanza significativo.

Da un ricorso presentato dall’ex capitano barracellare (appartenente evidentemente al gruppo avverso) apprendiamo che la nomina del sanitario era stata deliberata da un Consiglio composto da membri legati tra loro da stretta parentela: tre fratelli, un suocero, due generi, un figlio, 5 cugini di 1° grado e due di un altro ramo parentale.

Dei 9 sacerdoti che avrebbero dovuto firmare l’atto erano presenti solo 4 (i favorevoli) e 4 erano anche i rappresentanti dei capifamiglia sui 20 che ne avevano diritto.

Divisa nella gestione degli interessi la comunità di Orani fu invece assai coesa nella difesa del territorio dalle pretese dei villaggi confinanti.

A tutela dei propri confini Orani avviò contro i paesi vicini diverse cause civili. Il rapporto tra popolazione e territorio era certo più favorevole a Nuoro (che aveva 3400 abitanti) e Mamoiada (che ne aveva 2000) rispetto ad Orani che ne aveva 1700.

Per gli Oranesi tuttavia fronteggiare in 1700 i 5400 abitanti di Nuoro e Mamoiada che premevano ai confini per ottenere pascolo, ghiande e legna non fu facile.

Dopo gli accordi sottoscritti nel XVI secolo con Mamoiada rileviamo una nuova ripresa delle tensioni a fine Settecento quando per tre anni (1799 –1802) i diritti feudali del partito di Orani furono presi in appalto da alcuni sarulesi.

Costoro si disinteressarono totalmente di quanto accadeva nell’esteso bosco ghiandifero di Orani che confinava con Nuoro e Mamoiada. Anziché pagare qualcuno per sorvegliare il bosco del marchese gli appaltatori risparmiarono sulle spese e (forse incoraggiarono o autorizzarono per amicizia) i nuoresi e i mamoiadini a far legna nel territorio di Orani.

Ben presto numerosi carratori iniziarono ad effettuare tagli indiscriminati affermando di essere stati incaricati dal vescovo di Nuoro o dal capitano dei dragoni ma – affermava nel ricorso il sindaco di Orani – con un biglietto per un carro entravano 25 carratori. Nel 1804 quando ormai il salto “è quasi sterile e senza alberi come quello di Nuoro e Mamoiada” il Comune corse ai ripari e organizzò gruppi di vigilanza che catturarono e sequestrarono due carri e i relativi gioghi di buoi di 2 trasportatori nuoresi (Mauro Podda – Moro) imponendo loro pesanti multe. Il processo che venne intentato dalla Comunità di Orani con l’assenso dell’avvocato Pintor Sirigu, visitatore generale del feudo per conto del governo, durò a lungo e riprese vigore nel 1808 quando l’appalto del marchesato venne affidato a don Giovanni Sequi Nin, fratello del vicario capitolare di Alghero e uno dei più agiati possidenti della villa. Il nuovo appaltatore, incurante dei danni che avrebbe causato al patrimonio boschivo della comunità in cui era nato, iniziò a vendere le autorizzazioni di legnatico ai forestieri (nuoresi e mamoiadini) guadagnando somme rilevanti.

Il ricorso in tribunale servì a frenare l’ingordigia dell’amministratore e le incursioni degli abitanti dei comuni confinanti ma il bosco ghiandifero restò esposto anche ai danneggiamenti degli allevatori oranesi che dovendo nutrire il proprio bestiame tagliavano le chiome verdi oppure interi alberi per fare legna da ardere.

Nel XIX secolo, come accadde in tutta Europa, anche nel marchesato l’equilibrio tra risorse e popolazione peggiorò rapidamente e con esso il rispetto per l’ambiente. Dopo l’editto sulle chiudende (1820) anche ad Orani si iniziò a recintare superfici abbastanza estese riducendo le terre comuni.

Oltre ai rappresentanti più autorevoli dal notabilato locale (Siotto, Pintor, Marcello) a chiudere e recintare furono cittadini di altri paesi, trasferitisi nel villaggio a seguito di matrimoni o pastori di Nuoro e Mamoiada insediati da tempo in zone di confine dove, nelle cussorgie o attorno all’ovile, avevano dato avvio alla coltivazione di qualche pezzo di terra.

Le aree in cui pascolare e far legna gratuitamente divennero insufficienti in tutto il circondario costringendo quanti non potevano pagare un affitto ai possidenti di tanche o alle amministrazioni comunali limitrofe a praticare il pascolo abusivo.

Dopo la repressione dei moti di “Su Connnottu” una parte dei pastori poveri e dei coltivatori di Nuoro e Mamoiada cercò di soddisfare le proprie necessità in territorio di Orani.

A creare problemi – segnalava il sindaco – erano anche i ricchi proprietari del paese. Questi ultimi avevano accresciuto il numero delle loro vacche e dei maiali senza preoccuparsi di produrre il fieno necessario a nutrirle d’inverno e nei mesi più rigidi, quando la neve ricopriva l’erba, spinti dalla necessità, tagliavano i teneri polloni del bosco comunale.

Per proteggere i ghiandiferi il Consiglio civico, chiese al prefetto di sostituire i ministri del salto (che non potevano essere sempre presenti e che spesso erano troppo condiscendenti con amici e parenti) con ronde armate di 8 – 10 uomini da eleggere settimanalmente a turno per fronteggiare sia le incursioni dei nuoresi e mamoiadini sia quelle dei possidenti locali.

Come si può rilevare l’indagine storica e quella sul feudo di Orani in particolare può offrici un interessante spaccato della società locale, delle sue tensioni interne, e dei valori e delle identità che ne hanno rafforzato la coesione o alimentato i rapporti con l’esterno auguriamoci che la documentazione rimasta in Spagna e quella sarda consentano di ricostruire l’intera storia della comunità e non solo dei limitati e parziali frammenti.

Prof. Gianfranco Tore

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